Nel saggio Primo ingresso dell'espressionismo letterario in Italia, L. J. Mazzucchetti ha tentato di fornirci una data per indicare da quando l'espressionismo entra a far parte della letteratura italiana riferendosi al primo dopoguerra del 1930 con l'arrivo della «Neue Sachlichkeit». Il numero degli italiani che affrontarono e compresero l'espressionismo allora era poco. Una figura significativa che si avvicina ai temi espressionisti è forse Pirandello grazie alle sue scomposizioni dei personaggi e alla loro trasformazione in maschere e che ha messo in evidenza il problema fra essenza e apparenza. Ma nessuno tradusse gli autori, né mise in scena quel teatro, né si trovarono i dibattiti del movimento sulle riviste italiane. Mazzucchetti nomina Alberto Spaini, uno fra gli esploratori della prima ora per il movimento. Alberto era ancora studente nel 1913-1914 quando mandava le sue caotiche impressioni berlinesi alla «Voce» di Firenze. Ma solo nel 1931 comincia a lasciare le sue tracce espressionistiche traducendo Berlin Alexanderplatz di Döblin[1].
La categoria «espressionismo» viene introdotta in Italia e assume un «significato metastorico» ed esprime la «tentazione di rivoluzione permanente» rispetto alla tradizione linguistica classica. È nel futurismo che si vedono le prime manifestazioni. Il futurismo ebbe anche la fortuna di andare al di fuori dei confini italiani se si ricorda del cubo-futurismo russo con Majakovskij o Esenin e dell'espressionismo tedesco e francese. Ciò non vuol dire però che i futuristi in Italia sono riusciti del tutto a mettere quei suggerimenti rivoluzionari nella letteratura con i loro mezzi stampati. Inoltre, in Italia, non ci sono stati «riflussi di espressionismo storico», salvo il caso eccezionale di Ungaretti[2].
L'espressionismo letterario in Italia è caratterizzato dalle tre vie aperte allo scrittore espressionista che Leo Spitzer aveva indicato nel caso specifico di Romains. Queste tre possibilità sono dissoluzione della sintassi, formazione di nuove parole, dilatazione semantica. Tutte e tre venivano rese visibili dagli autori italiani. Contini fa accenno a tre autori considerati espressionisti che sono Clemente Rebora, Enrico Pea e Arturo Onofri. Nel caso di Rebora con i suoi Frammenti lirici, abbiamo trovato accensioni vernacole lombarde («l'ignavava sloia dei rari passanti») e accensioni di verbi («uno sdraia/passi d'argilla»). Il poeta «si appiglia a ogni sporgenza del suo linguaggio per comunicare il proprio tremito al mondo». Enrico Pea porta nelle sue opere il suo dialetto toscano ed è uno che presta molta attenzione ai dettagli, non nel senso di descrittivismo ma di un'«osservazione che trapana le superfici in traccia d'inquietanti segreti». Le persone che incontriamo nelle sue opere sono spesso vagabondi, pazzi, prostitute, alcolizzati. In Arturo Onofri, si trova la formazione di fusioni nominali e verbali («odi il tuo soergere-estasi», «quando il volerci-eternità-nel-tempo/era il non-ancor-nostro unico Amarci») e anche una sorta di «avverbializzazione dei sostantivi»[3].