Per famiglie baronali romane si intendono le famiglie nobiliari che nel Medioevo ebbero una grande influenza politica a Roma[1], molte volte subordinando la nomina dei Papi o la loro politica ai loro interessi, talvolta anche imponendone direttamente la nomina, e a loro volta grandemente beneficate dal nepotismo pontificio. Lo storico Sandro Carocci prende in particolare esame le famiglie che accentrarono il potere a partire dalla metà del secolo XII. In quell'epoca un unico Senatore sostituì il primitivo senato di 50 membri che fino al XII secolo[2] si affiancava alla figura del pontefice, per curare gli affari civili. Il papa compie questa scelta per avere meno controlli da parte di un organo collegiale allargato ma è proprio questa figura di senatore unico a rendere più visibile la concentrazione del potere nelle mani di un numero ristretto di famiglie, che furono chiamate baronali. Nel periodo tra il 1230 e il 1347 dei 168 senatori, 50 furono della famiglia Orsini, 28 Annibaldi, 24 Colonna, 17 Conti, 15 Savelli, 8 Stefaneschi, 5 Anguillara.[3]
«La stessa introduzione del termine baroni fu con ogni probabilità dovuta a una ricezione pontificia degli usi meridionali. L’endiadi normanna comites et barones per indicare le stirpi dotate di possessi signorili fu infatti utilizzata precocemente e in modo sistematico dalla cancelleria pontificia, che garantì in tal modo il duecentesco successo del secondo sostantivo»
Ma profonde differenze distinguono i feudatari del Regno di Napoli dai baroni romani, le cui signorie erano di natura allodiale e non feudale, pertanto del tutto autonome dal potere pontificio
Sempre secondo Carocci, a metà del secolo XIII erano 60 i castra in possesso delle principali famiglie baronali romane, al momento dell'elezione di papa Nicolò III della famiglia Orsini, erano diventati 100, e poi, a seguito di un succedersi di pontefici molto nepotisti[5], salirono fino a diventare 150. Dante Alighieri così si esprime sul nepotismo di Niccolò III.
«e veramente fui figliuol dell'orsa,
cupìdo sì per avanzar li orsatti,
che su l'avere, e qui me misi in borsa.»