Giorgio Giuseppe Antonio Maria Coda[1] (Torino, 21 gennaio 1924[2] – Torino, 23 maggio 1988[3]) è stato uno psichiatra italiano.
Divenne noto come "l'elettricista"[1] (oppure anche "l'elettricista di Collegno" per analogia con lo smemorato di Collegno[4]) per il suo uso improprio, e talvolta abuso, della tecnica dell'elettroshock. È stato vicedirettore dell'ospedale psichiatrico di Collegno[5] e direttore di villa Azzurra (struttura per bambini)[6], a Grugliasco (Torino).[7] Fu processato nel periodo 1970-1974 per maltrattamenti con relativa condanna a cinque anni di detenzione, al pagamento delle spese processuali e all'interdizione dalla professione medica per cinque anni[8][9].
Il "trattamento medico" consisteva nell'applicazione di scariche di corrente elettrica durature ai genitali e alla testa che non facevano perdere coscienza al malato pur provocandogli lancinanti dolori e che avrebbero dovuto, secondo Giorgio Coda, curare il paziente. Il trattamento era chiamato da Coda "elettroshock" o "elettromassaggio" a seconda che venisse praticato alla testa o ai genitali.[10] Altre volte, la parola elettromassaggio era usata come sinonimo di elettroshock. Il trattamento era praticato quasi sempre senza anestesia e, a volte, senza pomata e gomma in bocca, facendo così saltare i denti al paziente. Giorgio Coda, durante il processo, ha ammesso di aver praticato circa 5000 elettromassaggi, senza mostrare alcun segno di pentimento.[11]
Il trattamento di cui sopra era praticato anche su alcolisti, tossicodipendenti, omosessuali[12] e masturbatori, e generava un fortissimo senso di paura, tale da far desistere i pazienti, perlomeno temporaneamente. Il processo e la sentenza, raccolti e analizzati nel libro Portami su quello che canta del giornalista Alberto Papuzzi, hanno messo in luce il carattere coercitivo e punitivo degli elettromassaggi, i quali non erano strumenti di cura ma atroci strumenti di tortura e punizione usati anche su bambini.[13]
Alcune morti sospette durante l'elettroshock e alcuni suicidi verificatisi negli istituti hanno fatto nascere il sospetto che possano essere stati provocati dalla paura della sofferenza dei trattamenti ripetuti.[14]
Pur essendo un fatto di cronaca privo di connotazioni politiche, il caso fu ai suoi tempi interpretato da taluni in chiave politica, secondo le chiavi interpretative del Novecento. In quest'ottica, il medico "borghese" si accaniva contro le fasce più deboli del "proletariato".[15]
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