Good Times | |
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La famiglia Evans | |
Paese | Stati Uniti d'America |
Anno | 1974-1979 |
Formato | serie TV |
Genere | sitcom |
Stagioni | 6 |
Episodi | 133 |
Durata | 30 min circa (episodio) |
Lingua originale | inglese |
Rapporto | 4:3 |
Crediti | |
Ideatore | Mike Evans, Eric Monte |
Interpreti e personaggi | |
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Doppiatori e personaggi | |
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Casa di produzione | Bud Yorkin Productions, Columbia Broadcasting System, Tandem Productions |
Prima visione | |
Dall' | 8 febbraio 1974 |
Al | 1º agosto 1979 |
Rete televisiva | CBS |
Opere audiovisive correlate | |
Originaria | Maude |
Remake | The Fosters |
Good Times è una serie televisiva statunitense andata in onda per la prima volta negli Stati Uniti d'America dal febbraio 1974 all'agosto 1979 sul canale CBS.
Si tratta della prima sitcom televisiva a descrivere la vita di una "ordinaria" famiglia afro-americana (padre, madre, figli di età diverse) secondo il modello affermatosi alla televisione statunitense fin dagli anni cinquanta, ma mai finora applicato in ambiente afroamericano, tanto meno di estrazione sociale medio-bassa. In Giulia (1968-1971) la madre era vedova e viveva e lavorava con il piccolo Marc Copage in un ambiente "bianco" e benestante. Ancora in Il mio amico Arnold (1978-1986) i piccoli Gary Coleman e Todd Bridges saranno orfani adottati da un padre "bianco" benestante. Per avere un altro show incentratosi sulle vicende di una "ordinaria" famiglia afro-americana, di estrazione sociale medio-alta, si dovrà attendere la serie I Jefferson (1975-1985) e, poi, nella seconda metà degli anni ottanta I Robinson (1984-1992).[1]
La serie non è immune da stereotipi razziali e caricaturali (soprattutto nel personaggio del figlio maggiore), ma era nata per affrontare tematiche politiche e sociali di attualità, soprattutto per volontà dei due attori protagonisti, John Amos e Esther Rolle. Nella finzione il ruolo più politicizzato è riservato al figlio minore (interpretato da Ralph Carter). Reduce dal successo riscosso a Broadway nella versione musicale di A Raisin in the Sun (1973), Carter faceva parte (con George Spell, Kevin Hooks, Laurence Fishburne e Erin Blunt) di quella generazione di attori bambini afroamericani cui si affidò la responsabilità di offrire per la prima volta al pubblico americano un'immagine meno stereotipata di se stessi, sulla spinta delle lotte per i diritti civili tra gli anni sessanta e settanta, in netta rottura con il passato.[2]