Latino, principale lingua scritta e di cultura in età medievale, e dell'insegnamento superiore fino alla metà del XVIII secolo.
Napoletano, per 112 anni (1442-1554) linguaggio della regia cancelleria, del sovrano e delle assemblee periodiche napoletane; in concomitanza con l'italiano a partire dalla fine del XV secolo, e cedendo definitivamente il passo a quest'ultimo nel 1554.[2][3][4]
Italiano, principale lingua scritta e amministrativa, anche nell'oratoria forense, a partire dall'epoca di Sannazaro (fine del XV - inizi del XVI secolo),[5][6][7] e principale lingua di cultura insieme al latino.[8][9][10]
Il suo nome ufficiale era Regnum Siciliae citra Pharum,[13] il cui significato è “Regno di Sicilia al di qua del Faro”, in riferimento al Faro di Messina, e si contrapponeva al contemporaneo Regnum Siciliae ultra Pharum, cioè “Regno di Sicilia al di là del Faro”, che si estendeva sull'intera isola di Sicilia. In epoca normanna, l'intero Regno di Sicilia era distinguibile in due macro-aree: la prima includeva i territori insulari della ex Contea di Sicilia; la seconda includeva invece i territori peninsulari, costituiti in larga parte da quelli che furono il Ducato di Puglia e Calabria e il Principato di Capua; [14] riuniti con i normanni nel suddetto regno.
Quest'ultimo Stato fu istituito nel 1130, col conferimento a Ruggero II d'Altavilla del titolo di Rex Siciliae dall'antipapa Anacleto II, titolo confermato nel 1139 da papa Innocenzo II. Il nuovo Stato insisteva così su tutti i territori del Mezzogiorno, attestandosi come il più esteso degli antichi Stati italiani;[15] il suo assetto normativo fu definitivamente formalizzato fin dalle Assise di Ariano del 1140-1142. In seguito, con la stipula della pace di Caltabellotta del 1302, seguì la formale divisione del regno in due: Regnum Siciliae citra Pharum (noto nella storiografia come Regno di Napoli) e Regnum Siciliae ultra Pharum (anche noto, per un breve periodo, come Regno di Trinacria, e conosciuto nella storiografia come Regno di Sicilia). Pertanto tale trattato può essere considerato l'atto di fondazione convenzionale dell'entità politica oggi nota come Regno di Napoli.[16]
Il regno, come Stato sovrano, vide una grande fioritura intellettuale, economica e civile, sia sotto la dinastia angioina (1282-1442), sia in seguito alla conquista aragonese del trono napoletano da parte di Alfonso I (1442-1458), sia sotto il governo di un ramo cadetto della Casa d'Aragona (1458-1501); a quel tempo, la capitale, Napoli, era celebre per lo splendore della sua corte e il mecenatismo dei suoi sovrani. Nel 1504, la Spagna unita sconfisse la Francia nel contesto delle guerre d'Italia, e il Regno di Napoli fu da allora legato dinasticamente alla monarchia ispanica insieme a quello di Sicilia, fino al 1713 (de facto fino al 1707): entrambi furono governati come due vicereami distinti ma con la dicitura ultra et citra Pharum, e con la conseguente distinzione storiografica e territoriale tra Regno di Napoli e Regno di Sicilia. In seguito alla pace di Utrecht il reame napoletano passò ad essere amministrato, per un breve periodo (1713-1734), dalla monarchia asburgica d'Austria. Benché i due regni, nuovamente riuniti, ottennero l'indipendenza con Carlo di Borbone già nel 1735, l'unificazione giuridica definitiva di entrambi i regni si ebbe solo nel dicembre 1816, con la fondazione dello Stato sovrano del Regno delle Due Sicilie.
^Motto presunto e non ufficiale. Una leggenda vuole che il motto del regno fosse Noxias herbas (Le male erbe), scelto da Carlo I d'Angiò in riferimento al rastrello presente sullo stemma, che avrebbe simboleggiato la cacciata della "malerba" sveva. Questa ipotesi è scartata da Giovanni Antonio Summonte, che in Dell'Historia della città, e regno di Napoli, su books.google.it, 26 marzo 2015 (archiviato dall'url originale il 26 marzo 2015). (1675) spiega che il rastrello (che in realtà è un lambello) stava ad indicare che gli Angioini erano un ramo cadetto dei Capetingi, dai quali ereditarono lo stemma con i gigli d'oro.
^Esempio di napoletano letterario in uso a Napoli nella seconda metà del XV secolo, pervenutoci attraverso i saggi di Giovanni Brancati, umanista di corte di Ferdinando I: «Ben so io esserno multe cose in latino dicte quale in vulgaro nostro o vero non se ponno per niente o ver non assai propriamente exprimere, quale son multi de animali quali noi havemo, molti de arbori quali fi’ al presente sono como dal principio foron chiamati; chosì de herbe, de medicine, de infirmitate, de metalle, de pietre et de gioie, essendono o ver per loro rarità o vero per sorte chon li primi lor nomi ad noi pervenute. […]». In quest'epoca, il napoletano letterario in uso alla cancelleria di corte, si presenta epurato di alcuni dei tratti più marcatamente locali, alleggeriti con l'ingresso di elementi assunti dalla tradizione letteraria toscana, considerata più prestigiosa. Emanuele Giordano, La politica culturale e linguistica del Regno di Napoli nel Quattrocento (PDF), su rivistamathera.it, Associazione Culturale ANTROS, 2018, pp. 69-70.
^"Il volgare pugliese o napoletano, benchè non riconosciuto dai dotti, fu resa lingua politica, pubblica e dotta, come lingua cortigiana ed ufficiale della Sicilia, come quella dei Veneziani, e divenne per 112 anni (1442-1554) linguaggio della regia cancelleria, del sovrano e delle assemble periodiche napoletane, che adombravano in tempo di tirannide la reppresentanza generale e commune d’una parte della nazione italiana." « La lingua napoletana divenuta aulica nella corte d’Aragona ». Il Propungatore Tomo XII, Parte II, pagine 32-34., su books.google.it.
^Tullio De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1979, vol. 2, pág. 303.
^Paolo Trovato, Il primo Cinquecento, su Storia della lingua italiana, docsity.com, Università degli Studi di Milano. URL consultato il 19 marzo 2023.
^A Napoli, nel pieno della dominazione spagnola (secolo XVII), l'italiano scritto era la lingua più diffusa, seguito dal latino che era ancora la lingua dell'insegnamento superiore in città e nel suo Regno. Su un totale di 2800 libri conservati presso la principale biblioteca di Napoli e pubblicati nel secolo XVII, 1500 erano scritti in italiano (53,6% del totale) 1086 in latino (38,8% del totale) e solo 26 in napoletano (meno dell'1% del totale). Marco Santoro (direzione), Le secentine napoletane della Biblioteca Nazionale di Napoli, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1986, pag. 43.